Dramma multimediale per marionette robotiche, clavicembalo e violino liberamente ispirato al Frankenstein di Mary Shelley
uno spettacolo per chi nel profondo si sente un diverso
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uno spettacolo per chi nel profondo si sente un diverso
Quale tentazione più grande per un marionettista – faber monstrorum e animatore dell’inanimato – di confrontarsi con un classico come il Frankenstein di Mary Shelley? Il rapporto tra creatore e creatura nel romanzo si riflette perfettamente in quello tra animatore e pupazzo sulla scena, in un gioco di specchi che moltiplica all’infinito il più drammatico mistero della creazione. Il progetto nasce dalla volontà di creare uno spettacolo che sia una crestomazia artistica, come dire: la trasfusione di un metodo creativo dalla fanta-biologia letteraria al teatro.
La storia di Frankenstein è nota a tutti: un padre genera un figlio senza una madre e lo abbandona alla nascita. Questo ci permette di rinunciare ad un andamento narrativo per concentrarci sulla distillazione poetica di un contenuto esistenziale e filosofico, portando alla luce i meccanismi emotivi sottesi alla storia: paura, solitudine, abbandono, bisogno d’amore. Uno spettacolo dalle tinte tenebrose, poetico e romantico, ma anche duro come un pugno in faccia e dolce più di una carezza; serio ed insieme ironico. La messa in scena si concentra sul rapporto tra Victor e la creatura, e tra questi due e l’autrice stessa. Victor e il suo mostruoso figlio sono entrambi personaggi complessi, in bilico tra umano e disumano, tra il bene e il male, tra l’essere un cattivo filantropo e un buon assassino.
In una notte di tempesta, un’insonne Mary Shelley – un pupazzo con testa lignea, di grandezza naturale – è intenta a scrivere la sua opera. Si addormenta sul manoscritto e sogna i macabri esperimenti scientifici di Giovanni Aldini. Dal sonno della ragione si generano mostri: dalla testa di Mary esce il dottor Frankenstein, dal suo cuore esce il mostro; entrambi i personaggi costruiti con la tecnica delle marionette da polso. Una voce fuori campo esprime i pensieri dei diversi personaggi. In tutta la messa in scena mancano dialoghi veri e propri sostituiti, invece, da una successione di soliloqui, di monologhi intrapsichici, ad indicare l’incomunicabilità di fondo e la profonda solitudine che non è solo dei protagonisti, ma dell’uomo stesso.
Il design dei personaggi è espressamente pensato facendo riferimento al dato biografico. Il dott. Frankenstein avrà la fisionomia di Lord Byron, il poeta romantico che ospitò, nell’estate del 1816, Mary e suo marito presso Villa Diodati a Ginevra, dove Mary compose, appunto, il suo capolavoro. Il mostro sarà invece un androgino, volutamente creato da Victor dall’assemblaggio di parti maschili e femminili, nello specifico, quelle della stessa autrice e di suo marito Percy. Da sempre il mito dell’androgino è stato al centro dell’interesse di diverse civiltà: la sua plasticità semantica, il fascino perturbante della sua pienezza ontologica lo rendono oggetto privilegiato di una riflessione dell’uomo sull’uomo. Esso sembra essere evocato ogni qual volta venga posta la domanda sull’origine degli esseri umani.
Intento non secondario è quello di indagare e raccontare la vita affascinante e tragica dell’autrice, una Donna a dir poco eccezionale che, troppo spesso, viene dimenticata in nome della sua stessa creazione o, più tristemente, di suo marito Percy Bysshe Shelley, poeta romantico e filosofo britannico. Mary fu capace non solo di superare le barriere di quello che era concesso alle donne dei suoi tempi, ma seppe plasmare con le sue parole uno dei più inquietanti miti moderni.
La forte attenzione alla drammaturgia si radica in una parallela ricerca teorica che prende avvio dalla riscoperta di alcuni scienziati che, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, ebbero l’ardire di spingere i loro progetti oltre i sentieri normalmente battuti dagli uomini, forzando, coi loro esperimenti, quel confine che separa la vita dalla morte e lasciando nell’immaginario collettivo un’impronta indelebile: Luigi Galvani con i suoi studi sull’elettricità animale, ma soprattutto, i macabri tentativi di rianimazione esperiti da suo nipote, l’anatomista Giovanni Aldini, il quale provò a sfruttare l’elettricità per riportare in vita un corpo morto. Mary Shelley intuì l’enorme potenziale dell’elettricità, moderna fiamma prometeica, e c’è chi pensa che fu proprio Aldini ad ispirare il personaggio di Victor.